Eccoci arrivati a Padova. Il mese è terminato. Devo ancora riprendermi. Non mi rendo ancora conto di tutto quello che è successo. Mi sembra che sia stato un sogno. Che a poco a poco ne svanirà anche il gusto, rimastomi appicicato, chissà perchè.
Non può esistere un luogo del genere se non in un posto ultimamente irreale. E' difficile pensarci. E' sempre più inutile cercare di riprovare le sensazioni scaturite dall'incontro con questo sconcertante mondo del molteplice. Tutto sta svanendo per trovare una sua unità? Mi sembra impossibile. Ora capisco meglio Shankara e la sua dottrina. Capisco l'esigenza di un'esperienza unitaria che ha accomunato molti mistici indiani.
Stamattina mi sono svegliato presto, preso da una sorta di frenesia, come mi capita ultimamente, e sono andato alla ricerca di risposte nei miei numerosi libri. Di parole che rischiarassero la mia espierenza.
Qualcosa ho trovato. In un libricino di un indologo italiano che tanto stimo. Stefano Piano. Parole che avevo già letto ma che ora assumono tutt'altro aspetto. Ne cito dei brevi passi. Quelli più significatici per la mia esperienza:
"Una delle esperienze che si fanno più frequentemente in India, specialmente quando si visita per la prima volta quel grande paese, e ancor più se ci si trova in uno dei molti luoghi santi con le loro folle immense di pellegrini, è una sorta di smarrimento: è la sensazione, a volte sgradevole, di una perdita progressiva e inarrestabile della propria identità personale. Immersi in una realtà dai mille colori, odori, sapori, suoni, rumori confusi e assordanti, circondati e quasi travolti da migliaia di volti sconosciuti, si ha talvolta la netta sensazione della propria fragilità e della propria pochezza, di creature come tante, troppe altre, rapite in un turbinio caleidoscopico di forme e di apparenze oltre ogni immaginazione. Si giunge perfino - e l'esperienza è senza dubbio insolita - a provare una sorta di saturazione dei sensi, diventando incapaci di figurarsi ancora con la mente un volto famigliare e amico, un'immagine qualsiasi, che ci parli del “nostro” mondo, di un orizzonte esperienziale conosciuto e che possa costituire come un'ancora di salvezza nell'oceano tempestoso di un frenetico divenire.
Se si è provata anche solo una volta questa sensazione, si può capire più facilmente come l'animo indiano, di fronte a una molteplicità così esasperata delle apparenze terrene, abbia cercato con tutte le sue forze l'esperienza opposta dell'unità, della semplicità, del perfetto isolamento, e abbia finito per trovarla al termine di un percorso “religioso”."1
E ancora:
"Quest'idea dell'unità dell'Essere non è meno esasperata di quella molteplicità dalla quale l'uomo intendeva fuggire, giacché - almeno secondo una delle più autorevoli scuole di pensiero indiano, quella del Vedânta - solo il Bráhman esiste e tutto il resto non è che un'apparenza vana, illusoria, frutto di mâyâ, cioè del potere di auto-nascondimento dell'unica Realtà. Se da una parte questa concezione può portare il mistico alla sublime consapevolezza della propria identità con il Tutto (aham brahmâsmi, “io sono il Bráhman”), dall'altra non soddisfa le esigenze della pietà popolare, che ha bisogno di instaurare col divino un rapporto personale fra un “io” e un “Tu”."2
Fuggire. Per andare dove? Qual' è la via? O meglio la mia via? Questo viaggio si è fatto sopratutto per capire ciò. E adesso? La paura è di non averci capito niente. La paura è di far finta di non averci capito niente. Far finta di non vederla la propria via. Rifiutarsi di percorrerla. Per una sorta di precomprensione. O forse per un attaccamento al proprio dolore.
1. Stefano Piano, Primo incontro con l'India, Torino, Magnanelli, 2002
2. Ibidem
Vale!!!
RispondiEliminafinalmente anke io ho creato il mio blog!!!
ho letto qualcosina qui sul tuo...grande esperienza...
Baci*